1989: la fine del regime comunista

Concludo il mio tour della Transilvania con il castello di Peleș perché è il tratto d’unione con il resto del viaggio.



Il tema delle prossime tappe riguarderà alcuni luoghi importanti per la storia rumena e, in particolare, la fine del regime comunista a 30 anni di distanza.
Durante il periodo comunista il Castello di Peleș venne utilizzato dal “Conducador” Ceausescu per accogliere i capi di stato in visita ufficiale e, proprio per questo, mi sono riservato la visita del castello come introduzione ad un altro tipo di Romania; quella che “esce” dal regime comunista.

La mia curiosità era quella di ripercorrere i luoghi superstiti della follia di un dittatore. Peles, anche se esisteva già prima di Ceausescu, è stato lo scenario di incontri con capi di stato e residenza estiva del dittatore.

Castello di Peleș:
Sul passo che dalla Transilvania porta verso Bucarest c’è l’ultima tappa del mio mini-tour tra castelli e fortezze: si tratta del Castello di Peleș. Questo castello, la cui costruzione iniziò nella seconda metà del XVII secolo,  è una delle mete più visitate della Romania; il Re rumeno Carlo I lo fece costruire come residenza estiva e gli arredi originali danno un’idea di quello che era lo stile di vita Reale.

La visita attraversa sale sontuose arredate con legno e tessuti pregiati, una sala d’armi con pezzi originali da tutto il mondo e sale per ricevimenti e banchetti, oltre lo studio e la Biblioteca del Re con tanto di uscita di sicurezza che porta agli appartamenti privati.







Nicolae Ceausescu e la dittatura rumena

La figura di Ceausescu è oltremodo controversa. Fu un personaggio di spicco del partito comunista fin dai primi anni in cui vi aderì e concluse la sua ascesa al potere nel 1967.
Quando si trovò a capo della nazione diede sfogo a tutte le sue manie, donò titoli di studio alla sua consorte, che raggiunse il livello di primo ministro; da semi-analfabeta arrivò così in alto nella scala gerarchica del potere rumeno tanto essere seconda solo al consorte dittatore.



Un luogo da non perdere se si vuole seguire le tracce della famiglia Ceausescu è palazzo Primavera (Palatul Primaverii) dove visse la famiglia Ceausescu per quasi tutti i 25 anni in cui durò il loro regime.
La visita va prenotata in anticipo, prendendo contatto con l’associazione che la gestisce e si è ammessi alla visita solo presentando un documento di identità. Già le modalità di accesso danno l’idea che ci stiamo apprestando a visitare un luogo particolare, carico di significati per la recente storia rumena.


Palazzo primavera è il vero e proprio mausoleo del dittatore (anche se non è sepolto qui), si attraversano le stanze che vennero inventate, realizzate e vissute dalla coppia Ceausescu e dai loro figli. Tutto è rimasto intatto, gli arredi, le decorazioni: persino i regali ricevuti durante le visite di stato sono ancora esposti come dovevano apparire fino a 30 anni fa.







La casa è arredata con un gusto eccessivamente pomposo, tanto da scadere nel pacchiano; l’architetto e stilista di casa era Elena Ceausescu che, da buona moglie, allestiva ogni “scenario” tenendo bene in considerazione le manie del marito.
Nicolae, di suo, era ossessionato dalla paura di essere avvelenato: si narra di kit per l’analisi immediata dei cibi e di un armadio fornito di 365 vestiti, imbustati e utilizzati per un solo giorno all’anno, poi macchiati indelebilmente di rosso e distrutti.

Il clou della visita arriva quando si sale alle stanze private dei coniugi: una scala di marmo conduce agli appartamenti (e al bagno privato) diventati famosi subito dopo la rivoluzione.


I primi filmati divennero tristemente famosi, una coppia che per decenni aveva affamato il loro popolo, viveva nel lusso più sfrenato: legni e marmi pregiati a decorare ogni stanza, bagni rivestiti di mosaici e rubinetti in oro. Tutto sta ancora lì e, vederlo dal vivo, oggi, non lascia altro che l’impressione della follia e della megalomania raggiunta. Da buon nazionalista si premurò di utilizzare solo materiali e manodopera rumena, per poter sentirsi libero di non pagare alcun tipo di fornitura, in fondo si trattava di lavori riservati alla residenza del capo della nazione!

La parte finale della visita riguarda la “zona benessere” di casa Ceusescu: Sauna, idromassaggio e un’immensa piscina circondata da mosaici sui tre lati. Ovunque presenti in tutta casa quelli che sono diventati i simboli di Ceausescu: dei bellissimi pavoni che decorano casa e vivono ancora in giardino. Le guide sono pronte a dichiarare che sono i diretti discendenti dei pavoni allevati dalla famiglia Ceausescu.






Uno dei motivi per cui il dittatore Ceausescu attirò su di sé i favori dei governi di tutto il mondo deriva dal fatto che si oppose all’invasione russa in Cecoslovacchia del 1968, ma la sua presa di posizione era uno stratagemma per apparire un governatore di vedute moderne e con un’attenzione particolare ai bisogni della popolazione.
Proprio la stessa attenzione che mancò di riservare ai cittadini rumeni: i razionamenti di beni di prima necessità, la sospensione della corrente elettrica e dei riscaldamenti, furono incrementati negli ultimi anni prima della caduta del regime. Ciò che Ceausescu aveva programmato per lo Stato Generale di Romania era la costruzione di un palazzo enorme che, nel momento in cui il regime cadde, non era ancora stato inaugurato: la "Casa del Popolo".

Per 5 anni lavorarono al progetto più di 2.000 operai e 700 architetti. Venne costruito interamente con materiali rumeni (mai pagati): marmi, legni, tessuti…
Per la costruzione Ceausescu fece radere al suolo un sesto del centro storico di Bucarest, le poche chiese che sono state salvate sono state rimontate in altri luoghi, spesso soffocate da palazzi in cemento armato, in tipico stile da regime socialista.

Le sale che si susseguono nella visita hanno come filo conduttore l’enorme utilizzo di marmi e velluti, un ossessivo ripetersi di figure e decorazioni che, dai lampadari, si riflettono sul pavimento. Saloni e corridoi “oversize” dove le poche decorazioni che li adornano sono quadri di artisti rumeni ben visti dal dittatore poiché le opere erano pura propaganda di partito.


In tutto questo monotono alternarsi di colori tenui spiccano dei quadri, copie di importanti opere di Raffaello. Sono rimaste nel palazzo dopo che in questo palazzo venne girato un film ambientato in Vaticano. I quadri servivano a rendere credibile la scena, lo sfondo di marmo lo aveva gentilmente offerto Ceausescu e il partito comunista.



Durante le visite ogni guida, anche quando parla in termini critici del regime Comunista, tende a marcare che, già a distanza di trenta anni, sbucano sempre più frequenti gli immancabili nostalgici della dittatura e della vita di allora. “Anche se non c’era niente da comprare, mangiavamo.” L’unica differenza, mi viene da pensare, è che oggi, rispetto ad allora, i rumeni possono togliersi la soddisfazione di insultare i politici.



L’ultima tappa sulle tracce della dittatura di Ceausescu è anche il luogo dove ebbe fine la dittatura stessa. Teatro del drammatico epilogo nel giorno di Natale del 1989 fu la piccola caserma di Targoviste, siamo ad 80km da Bucarest. Poco fuori Targoviste venne bloccata e arrestata la coppia Ceausescu che, per sfuggire alla rivolta che ormai dilagava in ogni città, cercava di fuggire con qualsiasi mezzo trovasse a disposizione.
Dopo aver condotto i fuggitivi in caserma vennero contattate le autorità ed in breve tempo si decise una linea d’azione drastica: il processo si svolse la mattina del 25 dicembre e la condanna venne eseguita immediatamente.



“«Mi dissero: è in una piccola scuola fuori Bucarest. Vai là. C’è da fargli il processo». Il procuratore militare Dan Voinea beve un tè e scruta la finestra con le renne che addobbano la caffetteria. «Fu un Natale terribile. Firmai io il mandato d’arresto. Poi presi l’auto, attraversai le strade piene di cadaveri e andai a Targoviste. Capii che stavo per entrare nella storia…». Oggi Dan è in pensione, ma ricorda ogni istante: come entrò nella scuola, come aprì quella porta e come si trovò davanti la coppia Ceausescu. «Io non li avevo mai visti così da vicino. Nessuno poteva stare mai a meno di cento metri da loro…». 

Dan rimase impietrito. «Li guardavo, ed erano il potere spogliato di tutto».
Chiese le carte, l’elenco dei testimoni. «Mi risposero che non c’era tempo, meglio andare veloci». Allora fissò il dittatore e la moglie, fece la prima domanda. «Lui ricambiò lo sguardo con disprezzo. Poi mormorò qualche insulto. Rispose che non ci riconosceva come tribunale e che avrebbe parlato solo all’Assemblea nazionale». A Dan Voinea non restò che la requisitoria. «L’accusai di genocidio e crimini contro l’umanità. Era la prima volta in vita mia che chiedevo una condanna a morte…». Non fu facile restare calmi. «Dovevo rispettare le procedure: mi voltai verso il suo avvocato per sapere se voleva appellarsi. Il difensore fece di no con la testa. Fui stupito: era molto più severo lui di me!». Il processo durò poco.

Credevo fosse un’udienza preliminare, invece si decise d’eseguire subito la sentenza». Trent’anni dopo, con la saggezza dei suoi 69, ogni tanto Dan se lo chiede: fu vera giustizia? «Io non pensavo l’avrebbero fucilato. Certo, fosse rimasto vivo, l’avremmo processato meglio e forse avrebbe avuto l’ergastolo. Ma in fondo, con lui morto, tutti si sono sentiti liberi di tradirlo. Il nostro comunismo aveva una testa sola: tagliata quella, morì il corpo». Fu rivoluzione o golpe? «Né l’una, né l’altro. Cominciò con una rivolta a Timisoara. Che si trasformò in una rivoluzione a Bucarest. I soldati si strapparono le mostrine, un po’ del regime passò col popolo: questo permise a molti comunisti di riciclarsi al potere».”




Questa è l’idea che è possibile farsi guardando i documentari in giro per il web ed è quello che avviene ovunque. I responsabili si riciclano e tutto continua, diverso da prima e, proprio per questo, troppo uguale a prima.

“I romeni sono il popolo più fatalista del mondo, diceva Emil Cioran, ma quel 21 dicembre 1989 il destino se lo fabbricarono da soli. Calpestati, depredati, stuprati; nessun paradiso comunista toccò mai quei punti d’inferno: senza luce e senza riscaldamento, una paranoia nordcoreana dove si collettivizzavano le campagne e deportavano i contadini. I piccoli disabili poco utili al socialismo erano abbandonati con le camicie di forza in orfanotrofi pieni di topi: si calcola che ne morirono almeno 20mila. La «polizia mestruale» sorvegliava le donne perché non provassero ad abortire. Un Paese di schiavi costretti alla fame, per soddisfare Zio Nicu: un megalomane capace di costruirsi il secondo palazzo più grande del mondo dopo il Pentagono, una Versailles da un migliaio di saloni con marmi, cristalli, parquet intarsiati e tende filate d’oro. Un popolo a libro paga della Securitate e che stipendiava il terrorismo internazionale, Br comprese: tutti spiavano tutti, ogni 50 cittadini c’era un agente dei servizi, i bambini venivano educati a denunciare i genitori. Negli Usa, per curare i traumi subìti dagli adolescenti dopo le stragi delle scuole, s’usano ancora adesso gli studi sullo stress dei piccoli romeni anni ’80.
Perché quello era un mondo in cui sembravano vere anche le bugie, e di generazione in generazione si sbroccava: «Io ero bambina», racconta Loana Ioana, giornalista culturale, «ma quell’angoscia me la ricordo. Una volta ero su un bus di Bucarest con mia mamma. Sentii qualcuno che parlava male dei capitalisti. E siccome non sapevo cosa fossero e credevo si trattasse degli abitanti della capitale, dissi ad alta voce: “Ma anche noi siamo capitalisti!...!". Per una battuta così, tutta la famiglia rischiava la galera…».
«Ma la rivoluzione fallì subito» Bastò un mese, dopo la caduta il Muro di Berlino, perché ci fosse il più fragoroso dei big bang: la pubblica contestazione, gli spari sulla folla, i 1.104 morti, la fuga. George Militaru — regista personale di Ceausescu, una vita a «mandarlo in onda solo sul profilo sinistro, per nasconderne la macchie del viso, e mentre pronunciava discorsi sempre uguali» — fu anche l’uomo che trasmise processo e fucilazione del dittatore. Scappato pure lui, venne per un po’ a lavorare in Rai («facevo Domenica In») e ora che è tornato è amaro: «La Rivoluzione fallì subito.
E i conti con quel passato non li abbiamo mai fatti.
Perché gli ex, alla fine, sono rimasti tutti al loro posto». In trent’anni ci sono state solo due condanne. Il corpo diplomatico è pieno di gente dal passato compromesso: l’estate scorsa è scoppiata una polemica anche sul console romeno a Milano. A 91 anni, vive nascosto e 
scrive libri Dumitru Popescu detto «Dumnezeu» (dio): ai tempi era il potentissimo capo della censura.
Un mese fa è (ri)cominciato il processo all’ex presidente Ion Iliescu, 89 anni, 3.500 testimoni citati in aula, accusato d’essersi riciclato al posto di Ceausescu spalmando il silenzio sui crimini d’allora. «Ci sono ancora in servizio decine di uomini della Securitate che commisero delitti», elenca lo storico Marius Oprea, presidente dell’Istituto di ricerca sui crimini del comunismo. 300mila morti, 651.087 detenuti torturati — e il 25 per cento morì in prigione — 8mila esecuzioni sommarie, 5mila condanne capitali. Non basta una vita, a indagare su tutti». Con una trentina d’archeologi Oprea va in cerca di fosse comuni e di morti senza nome. Quando trova uno scheletro per prima cosa chiama il pope a benedirlo: «I desaparecidos sono almeno 150mila. Chi moriva nei campi di lavoro o nelle mani della Securitate, veniva sepolto di nascosto e senza nome: dopo trent’anni, moltissime famiglie non sanno ancora nulla dei loro cari». Ma perché non se ne parla? «Si pensa sia passato troppo tempo. E poi nessuno ha chiesto mai chiarezza agli ex comunisti, rimasti al governo. Nessuno ha interesse, nemmeno l’Europa.
Tanti leader delle sinistre avevano a che fare con Ceausescu, anche italiani: da Berlinguer a Napolitano. La regina Elisabetta lo riceveva a Londra con le carrozze e i cavalli…». Per le sue ricerche Oprea ha ricevuto minacce: Ho dovuto mandare moglie e figli in Germania. Toccare certi argomenti è difficile». Lui non se n’è mai andato davvero. A Bucarest non esiste un museo del comunismo e nella libreria Humanitas, centralissima, hanno solo un libro di foto sul 1989: narrativa, zero. 
C’è qualche Revolution Tour per i turisti e la visita guidata alla reggia del tiranno, oggi il Parlamento, o fra le piccole cose di pessimo gusto nella villa di Bulevardul Primaverii, alla cassa ancora un paio di vecchie colf che lavoravano per la terribile Elena. «La gente chiede molti dettagli sui vizi della famiglia», dice la guida Maria Cristina Jacob, «ma noi fatichiamo a parlarne, quelle ferite fanno ancora male».”

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