Concludo il mio tour della Transilvania con il castello di Peleș perché è il tratto d’unione con il resto del viaggio.
Il tema delle prossime tappe riguarderà alcuni luoghi importanti per la storia rumena e, in particolare, la fine del regime comunista a 30 anni di distanza.
Durante il periodo comunista il Castello di Peleș venne utilizzato dal “Conducador” Ceausescu per accogliere i capi di stato in visita ufficiale e, proprio per questo, mi sono riservato la visita del castello come introduzione ad un altro tipo di Romania; quella che “esce” dal regime comunista.
La mia curiosità era quella di ripercorrere i luoghi superstiti della follia di un dittatore. Peles, anche se esisteva già prima di Ceausescu, è stato lo scenario di incontri con capi di stato e residenza estiva del dittatore.
Castello di Peleș:
Sul passo che dalla Transilvania porta verso Bucarest c’è l’ultima tappa del mio mini-tour tra castelli e fortezze: si tratta del Castello di Peleș. Questo castello, la cui costruzione iniziò nella seconda metà del XVII secolo, è una delle mete più visitate della Romania; il Re rumeno Carlo I lo fece costruire come residenza estiva e gli arredi originali danno un’idea di quello che era lo stile di vita Reale.
La visita attraversa sale sontuose arredate con legno e tessuti pregiati, una sala d’armi con pezzi originali da tutto il mondo e sale per ricevimenti e banchetti, oltre lo studio e la Biblioteca del Re con tanto di uscita di sicurezza che porta agli appartamenti privati.
Nicolae Ceausescu e la dittatura rumena
La figura di Ceausescu è oltremodo controversa. Fu un personaggio di spicco del partito comunista fin dai primi anni in cui vi aderì e concluse la sua ascesa al potere nel 1967.
Quando
si trovò a capo della nazione diede sfogo a tutte le sue manie, donò titoli di
studio alla sua consorte, che raggiunse il livello di primo ministro; da
semi-analfabeta arrivò così in alto nella scala gerarchica del potere rumeno tanto essere seconda solo al consorte dittatore.
Un
luogo da non perdere se si vuole seguire le tracce della famiglia Ceausescu è
palazzo Primavera (Palatul Primaverii) dove visse la famiglia Ceausescu per quasi
tutti i 25 anni in cui durò il loro regime.
La
visita va prenotata in anticipo, prendendo contatto con l’associazione che la
gestisce e si è ammessi alla visita solo presentando un documento di identità.
Già le modalità di accesso danno l’idea che ci stiamo apprestando a visitare un
luogo particolare, carico di significati per la recente storia rumena.
Palazzo
primavera è il vero e proprio mausoleo del dittatore (anche se non è sepolto
qui), si attraversano le stanze che vennero inventate, realizzate e vissute
dalla coppia Ceausescu e dai loro figli. Tutto è rimasto intatto, gli arredi,
le decorazioni: persino i regali ricevuti durante le visite di stato sono
ancora esposti come dovevano apparire fino a 30 anni fa.
La casa è arredata con un gusto eccessivamente pomposo, tanto da scadere nel pacchiano; l’architetto e stilista di casa era Elena Ceausescu che, da buona moglie, allestiva ogni “scenario” tenendo bene in considerazione le manie del marito.
Nicolae,
di suo, era ossessionato dalla paura di essere avvelenato: si narra di kit per
l’analisi immediata dei cibi e di un armadio fornito di 365 vestiti, imbustati
e utilizzati per un solo giorno all’anno, poi macchiati indelebilmente di rosso
e distrutti.
Il
clou della visita arriva quando si sale alle stanze private dei coniugi: una
scala di marmo conduce agli appartamenti (e al bagno privato) diventati famosi
subito dopo la rivoluzione.
I
primi filmati divennero tristemente famosi, una coppia che per decenni aveva
affamato il loro popolo, viveva nel lusso più sfrenato: legni e marmi pregiati
a decorare ogni stanza, bagni rivestiti di mosaici e rubinetti in oro. Tutto
sta ancora lì e, vederlo dal vivo, oggi, non lascia altro che l’impressione
della follia e della megalomania raggiunta. Da buon nazionalista si premurò di utilizzare solo materiali e manodopera rumena, per poter sentirsi libero di non pagare alcun tipo di fornitura, in fondo si trattava di lavori riservati alla residenza del capo della nazione!
La
parte finale della visita riguarda la “zona benessere” di casa Ceusescu: Sauna,
idromassaggio e un’immensa piscina circondata da mosaici sui tre lati. Ovunque
presenti in tutta casa quelli che sono diventati i simboli di Ceausescu: dei
bellissimi pavoni che decorano casa e vivono ancora in giardino. Le guide sono
pronte a dichiarare che sono i diretti discendenti dei pavoni allevati dalla
famiglia Ceausescu.
Uno dei motivi per cui il dittatore Ceausescu attirò su di sé i favori dei governi di tutto il mondo deriva dal fatto che si oppose all’invasione russa in Cecoslovacchia del 1968, ma la sua presa di posizione era uno stratagemma per apparire un governatore di vedute moderne e con un’attenzione particolare ai bisogni della popolazione.
Proprio
la stessa attenzione che mancò di riservare ai cittadini rumeni: i razionamenti di
beni di prima necessità, la sospensione della corrente elettrica e dei
riscaldamenti, furono incrementati negli ultimi anni prima della caduta del
regime. Ciò che Ceausescu aveva programmato per lo Stato Generale di Romania
era la costruzione di un palazzo enorme che, nel momento in cui il regime
cadde, non era ancora stato inaugurato: la "Casa del Popolo".
Per
5 anni lavorarono al progetto più di 2.000 operai e 700 architetti. Venne
costruito interamente con materiali rumeni (mai pagati): marmi, legni, tessuti…
Per
la costruzione Ceausescu fece radere al suolo un sesto del centro storico di
Bucarest, le poche chiese che sono state salvate sono state rimontate in altri
luoghi, spesso soffocate da palazzi in cemento armato, in tipico stile da
regime socialista.
Le
sale che si susseguono nella visita hanno come filo conduttore l’enorme
utilizzo di marmi e velluti, un ossessivo ripetersi di figure e decorazioni
che, dai lampadari, si riflettono sul pavimento. Saloni e corridoi “oversize”
dove le poche decorazioni che li adornano sono quadri di artisti rumeni ben
visti dal dittatore poiché le opere erano pura propaganda di partito.
In tutto questo monotono alternarsi di colori tenui spiccano dei quadri, copie di importanti opere di Raffaello. Sono rimaste nel palazzo dopo che in questo palazzo venne girato un film ambientato in Vaticano. I quadri servivano a rendere credibile la scena, lo sfondo di marmo lo aveva gentilmente offerto Ceausescu e il partito comunista.
Durante le visite ogni guida, anche quando parla in termini critici del regime Comunista, tende a marcare che, già a distanza di trenta anni, sbucano sempre più frequenti gli immancabili nostalgici della dittatura e della vita di allora. “Anche se non c’era niente da comprare, mangiavamo.” L’unica differenza, mi viene da pensare, è che oggi, rispetto ad allora, i rumeni possono togliersi la soddisfazione di insultare i politici.
L’ultima
tappa sulle tracce della dittatura di Ceausescu è anche il luogo dove ebbe fine
la dittatura stessa. Teatro del drammatico epilogo nel giorno di Natale del
1989 fu la piccola caserma di Targoviste, siamo ad 80km da Bucarest. Poco fuori
Targoviste venne bloccata e arrestata la coppia Ceausescu che, per sfuggire
alla rivolta che ormai dilagava in ogni città, cercava di fuggire con qualsiasi
mezzo trovasse a disposizione.
Dopo
aver condotto i fuggitivi in caserma vennero contattate le autorità ed in breve
tempo si decise una linea d’azione drastica: il processo si svolse la mattina
del 25 dicembre e la condanna venne eseguita immediatamente.
“«Mi dissero: è in una piccola
scuola fuori Bucarest. Vai là. C’è da fargli il processo». Il procuratore
militare Dan Voinea beve un tè e scruta la finestra con le renne che
addobbano la caffetteria. «Fu un Natale terribile. Firmai io il mandato d’arresto.
Poi presi l’auto, attraversai le strade piene di cadaveri e andai a
Targoviste. Capii che stavo per entrare nella storia…». Oggi Dan è in
pensione, ma ricorda ogni istante: come entrò nella scuola, come aprì
quella porta e come si trovò davanti la coppia Ceausescu. «Io non li avevo
mai visti così da vicino. Nessuno poteva stare mai a meno di cento metri
da loro…».
Dan rimase impietrito. «Li guardavo, ed erano il potere spogliato di tutto». Chiese le carte, l’elenco dei testimoni. «Mi risposero che non c’era tempo, meglio andare veloci». Allora fissò il dittatore e la moglie, fece la prima domanda. «Lui ricambiò lo sguardo con disprezzo. Poi mormorò qualche insulto. Rispose che non ci riconosceva come tribunale e che avrebbe parlato solo all’Assemblea nazionale». A Dan Voinea non restò che la requisitoria. «L’accusai di genocidio e crimini contro l’umanità. Era la prima volta in vita mia che chiedevo una condanna a morte…». Non fu facile restare calmi. «Dovevo rispettare le procedure: mi voltai verso il suo avvocato per sapere se voleva appellarsi. Il difensore fece di no con la testa. Fui stupito: era molto più severo lui di me!». Il processo durò poco.
Dan rimase impietrito. «Li guardavo, ed erano il potere spogliato di tutto». Chiese le carte, l’elenco dei testimoni. «Mi risposero che non c’era tempo, meglio andare veloci». Allora fissò il dittatore e la moglie, fece la prima domanda. «Lui ricambiò lo sguardo con disprezzo. Poi mormorò qualche insulto. Rispose che non ci riconosceva come tribunale e che avrebbe parlato solo all’Assemblea nazionale». A Dan Voinea non restò che la requisitoria. «L’accusai di genocidio e crimini contro l’umanità. Era la prima volta in vita mia che chiedevo una condanna a morte…». Non fu facile restare calmi. «Dovevo rispettare le procedure: mi voltai verso il suo avvocato per sapere se voleva appellarsi. Il difensore fece di no con la testa. Fui stupito: era molto più severo lui di me!». Il processo durò poco.
Credevo
fosse un’udienza preliminare, invece si decise d’eseguire subito la
sentenza». Trent’anni dopo, con la saggezza dei suoi 69, ogni tanto Dan se
lo chiede: fu vera giustizia? «Io non pensavo l’avrebbero fucilato. Certo,
fosse rimasto vivo, l’avremmo processato meglio e forse avrebbe avuto
l’ergastolo. Ma in fondo, con lui morto, tutti si sono sentiti liberi di
tradirlo. Il nostro comunismo aveva una testa sola: tagliata quella, morì
il corpo». Fu rivoluzione o golpe? «Né l’una, né l’altro. Cominciò con una
rivolta a Timisoara. Che si trasformò in una rivoluzione a Bucarest. I
soldati si strapparono le mostrine, un po’ del regime passò col popolo:
questo permise a molti comunisti di riciclarsi al potere».”
Questa è l’idea che è possibile farsi guardando
i documentari in giro per il web ed è quello che avviene ovunque. I
responsabili si riciclano e tutto continua, diverso da prima e, proprio per
questo, troppo uguale a prima.
“I
romeni sono il popolo più fatalista del mondo, diceva Emil Cioran, ma quel
21 dicembre 1989 il destino se lo fabbricarono da soli.
Calpestati, depredati, stuprati; nessun paradiso comunista toccò mai quei
punti d’inferno: senza luce e senza riscaldamento, una paranoia
nordcoreana dove si collettivizzavano le campagne e deportavano i
contadini. I piccoli disabili poco utili al socialismo erano abbandonati
con le camicie di forza in orfanotrofi pieni di topi: si calcola che
ne morirono almeno 20mila. La «polizia mestruale» sorvegliava le
donne perché non provassero ad abortire. Un Paese di schiavi costretti
alla fame, per soddisfare Zio Nicu: un megalomane capace di costruirsi
il secondo palazzo più grande del mondo dopo il Pentagono, una
Versailles da un migliaio di saloni con marmi, cristalli, parquet
intarsiati e tende filate d’oro. Un popolo a libro paga della Securitate e
che stipendiava il terrorismo internazionale, Br comprese: tutti
spiavano tutti, ogni 50 cittadini c’era un agente dei servizi, i bambini
venivano educati a denunciare i genitori. Negli Usa, per curare i traumi
subìti dagli adolescenti dopo le stragi delle scuole, s’usano ancora
adesso gli studi sullo stress dei piccoli romeni anni ’80.
Perché
quello era un mondo in cui sembravano vere anche le bugie, e di generazione
in generazione si sbroccava: «Io ero bambina», racconta Loana
Ioana, giornalista culturale, «ma quell’angoscia me la ricordo. Una volta
ero su un bus di Bucarest con mia mamma. Sentii qualcuno che parlava
male dei capitalisti. E siccome non sapevo cosa fossero e credevo
si trattasse degli abitanti della capitale, dissi ad alta voce: “Ma
anche noi siamo capitalisti!...!". Per una battuta così, tutta la famiglia rischiava
la galera…».
«Ma la
rivoluzione fallì subito» Bastò un mese, dopo la caduta il Muro di Berlino,
perché ci fosse il più fragoroso dei big bang: la pubblica contestazione,
gli spari sulla folla, i 1.104 morti, la fuga. George Militaru — regista
personale di Ceausescu, una vita a «mandarlo in onda solo sul profilo
sinistro, per nasconderne la macchie del viso, e mentre pronunciava
discorsi sempre uguali» — fu anche l’uomo che trasmise processo e
fucilazione del dittatore. Scappato pure lui, venne per un po’ a lavorare
in Rai («facevo Domenica In») e ora che è tornato è amaro: «La
Rivoluzione fallì subito.
E i
conti con quel passato non li abbiamo mai fatti.
Perché
gli ex, alla fine, sono rimasti tutti al loro posto». In trent’anni ci
sono state solo due condanne. Il corpo diplomatico è pieno di gente dal
passato compromesso: l’estate scorsa è scoppiata una polemica anche sul
console romeno a Milano. A 91 anni, vive nascosto e
scrive libri Dumitru Popescu detto «Dumnezeu» (dio): ai tempi era il potentissimo capo della censura.
scrive libri Dumitru Popescu detto «Dumnezeu» (dio): ai tempi era il potentissimo capo della censura.
Un mese
fa è (ri)cominciato il processo all’ex presidente Ion Iliescu, 89 anni,
3.500 testimoni citati in aula, accusato d’essersi riciclato al posto di
Ceausescu spalmando il silenzio sui crimini d’allora. «Ci sono ancora in
servizio decine di uomini della Securitate che commisero delitti», elenca
lo storico Marius Oprea, presidente dell’Istituto di ricerca sui crimini del
comunismo. 300mila morti, 651.087 detenuti torturati — e il 25 per cento
morì in prigione — 8mila esecuzioni sommarie, 5mila condanne capitali. Non
basta una vita, a indagare su tutti». Con una trentina d’archeologi Oprea
va in cerca di fosse comuni e di morti senza nome. Quando trova uno
scheletro per prima cosa chiama il pope a benedirlo: «I desaparecidos sono
almeno 150mila. Chi moriva nei campi di lavoro o nelle mani della
Securitate, veniva sepolto di nascosto e senza nome: dopo trent’anni,
moltissime famiglie non sanno ancora nulla dei loro cari». Ma perché non
se ne parla? «Si pensa sia passato troppo tempo. E poi nessuno ha chiesto
mai chiarezza agli ex comunisti, rimasti al governo. Nessuno ha interesse,
nemmeno l’Europa.
Tanti
leader delle sinistre avevano a che fare con Ceausescu, anche italiani: da
Berlinguer a Napolitano. La regina Elisabetta lo riceveva a Londra con le
carrozze e i cavalli…». Per le sue ricerche Oprea ha ricevuto minacce: Ho
dovuto mandare moglie e figli in Germania. Toccare certi argomenti è
difficile». Lui non se n’è mai andato davvero. A Bucarest non esiste un
museo del comunismo e nella libreria Humanitas, centralissima, hanno solo
un libro di foto sul 1989: narrativa, zero.
C’è qualche Revolution Tour per i turisti e la visita
guidata alla reggia del tiranno, oggi il Parlamento, o fra le piccole cose
di pessimo gusto nella villa di Bulevardul Primaverii, alla cassa ancora
un paio di vecchie colf che lavoravano per la terribile Elena. «La gente
chiede molti dettagli sui vizi della famiglia», dice la guida Maria
Cristina Jacob, «ma noi fatichiamo a parlarne, quelle ferite fanno ancora
male».”
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